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Una Palma d’oro a Tokyo

Un quotidiano tutt’altro che fantastico, eppure mai avaro di momenti magici, raccontato con gli occhi sensibili e affettuosi di Hirokazu Kore'eda

by Giacomo Donati

Non è il Giappone delle cartoline, quello delle luci dell’incrocio di Shibuya, quello rappresentato con grazia patinata da Sofia Coppola, neppure quello un po’ stereotipato degli anime o di autori come Takashi Miike e nemmeno si avvicina alle narrazioni folli ed esplosive di Shinya Tsukamoto: il cinema di Hirokazu Kore'eda guarda altrove, negli angoli apparentemente meno eclatanti, nei vicoli anonimi dove milioni di giapponesi trascorrono le loro vite un giorno dopo l’altro.

Eppure, un po’ come ovunque nel mondo, non è sotto ai riflettori che si nasconde l’anima più autentica di un popolo e le storie talvolta incredibili che costellano il quotidiano sono spesso più nobili e profonde delle ricostruzioni più ammiccanti che se ne fanno.

I festival ancora oggi servono a spandere un po’ di luce su coraggiose produzioni che resterebbero altrimenti ignote al grande pubblico, pertanto la Palma d’oro assegnata all’ultimo film di Kore’eda non fa eccezione: Shoplifters è l’ennesimo e senz’altro non conclusivo anello di una catena di racconti che il cineasta giapponese sgrana di anno in anno come un rosario.

Dopo aver rappresentato le difficoltà dei giapponesi ad affrontare le innumerevoli asperità della vita, trattando di morte, famiglie disfunzionali, bambini lasciati allo sbando, questa volta è il turno di mostrare una faccia ancora più insolita e invisibile del Giappone.

"Shoplifters è davvero un film su delle persone che condividono qualcosa, una condizione: un fallimento con la società"

A bassa voce e con lo stesso miscuglio di accettazione e irriverenza dei suoi personaggi, senza giudicare ma aprendo lo sguardo sull’inespugnabile complessità dell’esistenza, Kore’eda racconta la storia di una ragazzina che viene accolta, o meglio inserita, in un nucleo familiare quantomeno singolare, che vive ai margini della società, campando di piccoli furti, gioco d’azzardo e di altre condotte non proprio regolari.

Ma, come spesso accade, questa condotta fuorilegge altro non è se non l’unica possibile di resistere al meccanismo stritolante cui la vita quotidiana sottopone incessantemente i personaggi, colpevoli unicamente di non reggere le durissime imposizioni della società in cui vivono, ma che, in compenso, nel disperato tentativo di ritrovarsi e di tenere insieme il loro fragile equilibrio, sono ancora in grado di guardarsi intorno ed empatizzare con altri bisognosi come loro.

“Io volevo parlare della frattura che si viene a creare fra società e famiglia [..], mostrare il lato povero ma anche il calore, le emozioni, i sentimenti che si condividono nella casa. [..] Non ho mai voluto dare un messaggio morale, assolutamente no. Perché in realtà Shoplifters è davvero un film su delle persone che condividono qualcosa, una condizione: un fallimento con la società. Sono personaggi estremamente diversi che hanno fallito rispetto ai doveri che la società impone loro, come ad esempio il matrimonio, un buon lavoro etc. etc. e allora hanno messo su questo loro nucleo familiare e volevo raccontare di questo”.

Nessun intento di impartire lezioni di vita, nessuna illusione di riuscire a comprendere fino in fondo e a spiegare le ragioni che spingono oppure costringono i suoi personaggi a restare fuori dagli schemi e a subirne le pesanti conseguenze, ma una grande voglia di interrogarsi assieme ai protagonisti e agli spettatori stessi, esplorando anche le sfumature che è difficile inquadrare nella frenesia della quotidianità reale: questa è la grandezza del cinema di Kore’eda, che riprende e attualizza con una propria sensibilità la lezione di Ozu, con un respiro dichiaratamente più globale, ma con uno sguardo che non può che affascinare chi desideri approfondire l’identità giapponese in tutte le sue sfaccettature.

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