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Il Giappone di Munari

Breve storia di un incontro amoroso fra uno dei maggiori artisti e designer italiani e la filosofia e la visione del mondo del Sol Levante.

by Azalea Seratoni

Sono stato più volte in Giappone.
Mi ci hanno invitato a esporre e i giornali hanno detto che ero molto zen.

Bruno Munari



Risale al 1965 la mostra personale di Bruno Munari al grande magazzino Isetan di Tokyo - uno dei primi a interessarsi dei prodotti e della cultura italiana e a lavorare con La Rinascente di Milano - realizzata grazie alla mediazione di uno dei più importanti uomini di cultura giapponesi, Shuzo Takiguchi.
Per l’occasione Munari progetta una fontana: una vasca in metallo bianco con uno strato di sabbia bianca coperta da dieci centimetri di acqua immobile su cui, a ritmo regolato, cadono dall’alto cinque gocce d’acqua. La caduta provoca un moto perpetuo di cerchi concentrici che si formano e si dissolvono sulla superficie e il movimento è enfatizzato da quattro fonti di luce, quattro faretti puntiformi che proiettano le ombre sulla sabbia. Il perimetro della vasca è avvolto da una seduta, un cerchio concentrico che fa da cornice e da bordo e nasconde l’impianto sonoro progettato per amplificare il ritmico succedersi delle gocce.
A Kyoto si trova uno dei più noti esempi di “giardino secco” giapponese (karesansui), appartiene al monastero di Ryoanji: un rettangolo di sabbia bianca a grossi grani, quasi una ghiaia, rastrellata in modo da formare cerchi concentrici attorno a quindici pietre disposte a gruppi in modo che, da qualunque parte si osservi il giardino, c’è sempre una pietra che ne nasconde un’altra.

La fontana “a cinque gocce d’acqua” non è che uno degli infiniti indizi della predisposizione nipponica di Munari artista e designer, una delle tracce di un’affinità quasi sempre taciuta e custodita con riserbo, ma individuabile nella costante puntualità dei riferimenti alla tradizione di pensiero del buddismo zen, che, in questo caso, non devono essere letti come un “fenomeno di costume” esotista o giapponista ma come la constatazione di folgoranti parallelismi con un pensiero secolare che, nelle sue ramificazioni, ha profondamente influenzato la cultura cinese e quella giapponese.

Munari ha scritto che “durante l’infanzia siamo in quello stato che gli orientali definiscono zen: la conoscenza della realtà che ci circonda avviene istintivamente mediante quella attività che gli adulti chiamano gioco” (Munari, 1982). L’artista e designer si è occupato a lungo di quella cruciale parentesi esistenziale che è l’infanzia, trattando il gioco in maniera estremamente seria, quasi con severità.
In Giappone esiste uno speciale termine per indicare l’arte, asobi, che significa propriamente gioco. La parola non contiene nulla di giocoso in senso deteriore, assimilabile all’intrattenimento e allo svago, e include tutte quelle operazioni, discipline o vie (do) che nell’estetica estremorientale e specificamente zenista vengono considerate arti: l’arte del tiro con l’arco, l’arte della disposizione dei fiori, quelle della stanza del tè, della cerimonia del tè, della calligrafia, della forma poetica haiku, che sono direttamente legate al principio dell’illuminazione (satori), quella condizione di inconsapevolezza e di assenza di intenzione che si fa tutt’uno con l’abilità tecnica.

Scegliendo con cura e con molta pazienza i rami secchi di betulla, di acero, di magnolia e tagliando le parti che non servivano allo scopo con un seghetto giapponese, legandoli poi insieme con un filo bianco di cotone o di lino grezzo ma senza farli toccare, Munari faceva nascere dal nulla il progetto Alta tensione. Sono segni solidi quasi scritti nell’aria che si compongono improvvisamente in una forma, in assenza di qualsiasi intenzione.

Macchina inutile (bambù con pallina), primi anni cinquanta, Coll. Miroslava Hájek

Quando fu invitato dalla Harvard University a tenere lezioni sulla comunicazione visiva al Carpenter Center for the Visual Arts di Cambridge nel Massachusetts, agli studenti del corso Munari diceva - e lo ripeteva spesso - di non pensare prima di fare, di non cercare di farsi venire un’idea per fare una composizione, perché spesso un’idea preconcetta mette in difficoltà la mente. Soltanto così nascono forme logiche che “danno una soddisfazione visiva come le cose non forzate, non faticate, semplici e naturali” (Munari, 1968).

Era questo il metodo che Munari applicava a ogni suo progetto. L’azione, la concreta dimensione del fare si accordavano con immediatezza e senza fratture a un pensiero estremamente mobile ed elastico perché all’origine di questo processo esistevano una disciplina e un metodo rigorosi che facevano apparire spontanea un’azione lungamente pensata. In Design e comunicazione visiva Munari scrive: “Osservare a lungo, capire profondamente, fare in un attimo” (Munari, 1968), che è un antico aforisma giapponese.
La contemporaneità di pensiero e azione è una delle esperienze che affiora nel buddismo zen e si ritrova ad esempio nella calligrafia, la via del pennello (sho-do) che dà un grande valore al segno e a come viene tracciato.
Nell’opera di Munari testimoni di questo atteggiamento sono le ricerche sulla percezione dei segni degli anni Cinquanta, contemporanee ai Negativi-positivi, e il lavoro paraenciclopedico di ridisegnare tutta la tipologia degli alberi dando una forma, una dimensione, una texture ogni volta diverse all’ideogramma giapponese che rappresenta l’albero. Come negli Alberi Munari tracciava segni che interagivano con il vuoto del foglio bianco, così in Filipesi, assemblando grandi forme geometriche leggere e poco ingombranti come se fossero disegnate nell’aria, l’idea era di riempire un determinato spazio con il minimo materiale possibile, con l’intenzione finale di evidenziare il vuoto.
Tutta la cultura estremorientale è improntata sul principio del vuoto, anche l’idea stessa di cultura.
Questo principio si manifesta non soltanto nella calligrafia, ma anche nella stanza del tè e in molta architettura giapponese, nell’incompiutezza dei rotoli dipinti e delle stampe giapponesi, negli interstizi tra i rami di una composizione di fiori.

Macchina inutile (bambù treppiede), primi anni cinquanta, Coll. Miroslava Hájek

Diversamente da molta arte occidentale, l’artista e designer milanese non aveva certo orrore del vuoto. Fu una rivoluzione di cui tutti si accorsero il quadrato rosso che fluttuava liberamente sulla pagina bianca della collana “Nuovo Politecnico” di Einaudi per il quale l’efficacia visiva del disco rosso su campo bianco della bandiera giapponese costituisce un’innegabile rimando.
Quando Munari realizzò, sempre per la mostra al grande magazzino Isetan di Tokyo, il Libro illeggibile bianco e nero, benché non conoscesse la lingua giapponese, si fece comprendere con un’efficace operazione di slittamento dalla sintassi alla semantica. Allo stesso modo in Cappuccetto bianco ragionò alla sua maniera su una delle favole più celebri e costruì una storia attraverso le pagine bianche pensate per far vedere la levità silenziosa della neve che copre lo snodarsi della lettura.
È uno dei molti libri per bambini ideati da Munari come oggetti con cui interagire e in cui i lembi di carta si sollevano proprio come ora le pagine nel web si aprono quando le clicchiamo.
I libri per bambini, come la Scultura da viaggio, sono la preistoria dell’arte interattiva, diventata storia nel 1962 con la mostra Arte programmata organizzata da Munari, Umberto Eco e Giorgio Soavi con i giovani artisti del Gruppo N, del Gruppo T ed Enzo Mari nel negozio Olivetti di Milano.

La Scultura da viaggio è un oggetto che unisce l’antica arte di piegare la carta (origami) a quella di tagliare la carta (kirigami). L’oggetto può essere messo in tasca e ripiegato in una busta quando non serve. Non ci limitiamo a estrarlo dal suo involucro e a contemplarlo. È fondamentale il gesto di dispiegarlo in modo che la luce evidenzi la varietà delle superfici, i vuoti e i pieni, in un gioco infinito di possibilità visive. Proprio come avviene con i rotoli dell’antica pittura giapponese che stanno arrotolati negli armadi a muro quando non decorano il tokonoma di una casa tradizionale giapponese e vengono fruiti dinamicamente svolgendo e avvolgendo la striscia che accompagna l’andamento narrativo.
Nel buddismo zen il vuoto è anche legato all’idea di impermanenza, di cui sono espressione le pitture del mondo fluttuante (ukiyo-e). Lao Tze sostiene che soltanto nel vuoto risiede quello che è veramente essenziale e solo nel vuoto ci può essere movimento.
Il movimento, nel suo svolgersi nello spazio e nel tempo, è una costante del metodo munariano fin dalle Macchine inutili degli anni Trenta e rimanda a un’idea di mutevolezza, trasformabilità, transitorietà delle cose e della realtà. In Artista e designer Munari scrive: “Considerare il continuo flusso delle mutazioni vuol dire conoscere meglio il nostro mondo, vuol dire non cercare le verità assolute una volta per sempre, vuol dire capire che ‘l’eternità è oggi’. Con l’uso della sola ragione si può arrivare fino a un certo limite, poi occorre un’altra via per arrivare alla conoscenza globale: questa via è lo zen” (Munari, 1971)
La propensione di Munari per l’Oriente è un processo di autoidentificazione avvenuto naturalmente perché già ne esistevano i presupposti molto prima del 1954, quando per la prima volta egli venne a contatto con quella cultura.

Nella notte buia, Muggiani, Milano 1956

Nel 1956 Munari pubblica Nella notte buia, in cui il lettore si immerge quasi ipnotizzato da un lumicino lontano e attraversa una città, un prato pieno di insetti, entra in una grotta e trova l’uscita dopo una selva di stalattiti e stalagmiti. Munari sceglie una carta nera porosa per far vedere la notte e buca l’ultima pagina con piccoli cerchi che fluttuano liberamente sulla pagina, quindi la sovrappone a una carta gialla per far sì che i cerchi si trasformino in uno sciame di lucciole. Le lucciole si accendono e si spengono. Il fatto che le lucciole siano rappresentate da buchi nella carta nera produce un effetto di instabilità. Quando la carta gialla è lontana l’ombra spegne il lumicino, e quando la carta è bene aderente il giallo brilla.

Eishōsai Chōki, Caccia alle lucciole, 1795 c.

Al British Museum di Londra è conservata una stampa ukiyo-e di Eishōsai Choki (1795 circa) in cui sono rappresentati una donna e il suo bambino mentre vanno a caccia di lucciole con un ventaglio rotondo fatto di foglie di bambù, come era consuetudine intorno alla metà dell’estate al tramonto nei pressi dei corsi d’acqua. L’effetto dell’oscurità che risulta particolarmente morbido e profondo è ottenuto spolverando il foglio con mica bianca argentata e, dopo aver isolato gli insetti, soffiando inchiostro nero sullo sfondo.
C’è un haiku, la minuta poesia di diciassette sillabe così tipica dei maestri zen, del poeta-maestro Issa, che così recita: “Una lucciola / fluttuando-fluttuando / passa davanti”.


Le due Macchine inutili sopra riprodotte appartengono alla raccolta di Miroslava Hajek, costituita in modo cronologico e ragionato nel preciso intento di ripercorrere la storia di Munari artista. L'editore e l'autore ringraziano Miroslava Hajek per aver concesso la pubblicazione delle opere della sua collezione.

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